Idroponica. Cos’è e perché rappresenta il futuro delle coltivazioni

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Per coltivazione idroponica (dal greco antico hýdor, acqua + pónos, lavoro) si intende una tecnica di coltivazione fuori suolo o senza suolo, dove la terra è sostituita da un substrato inerte, come argilla espansa, fibra di cocco, lana di roccia o zeolite. Ma a chi conviene questo tipo di coltivazione? È utile anche su larga scala? Non essendoci il terreno, le piante da dove prendono i nutrienti e i sali minerali che danno il sapore a foglie e frutti? E i frutti e le verdure, in definitiva, di cosa sanno?

A queste e ad altre domande ci ha risposto Giorgio Prosdocimi Gianquinto, professore di Orticoltura e Direttore del Centro Studi e Ricerche in Agricoltura Urbana e Biodiversità (ResCUE-AB) del Dipartimento di Scienze Agrarie dell’Università di Bologna.

Idroponica. Che cos’è

“Le coltivazioni o colture ‘idroponiche’ o ‘senza suolo’ o ‘fuori suolo’ includono tutte quelle tecniche di coltivazione attuate in assenza del comune terreno agrario. Queste coltivazioni comprendono una vasta gamma di sistemi, in cui il rifornimento di acqua ed elementi nutritivi, indispensabili per la crescita e sviluppo delle piante, avviene attraverso la somministrazione di una soluzione nutritiva (acqua + nutrienti disciolti in essa)”. Banalmente, anche una comune pianta in vaso che teniamo sul balcone di casa nostra è una coltura fuori suolo. Bisogna dunque precisare che il termine ‘idroponica’ si usa per indicare le ‘colture senza substrato o su mezzo liquido’: “Le colture ‘fuori suolo’ si possono suddividere in ‘colture su substrato’ e ‘colture senza substrato o su mezzo liquido’. Nelle prime, le radici affondano in un substrato di diverso tipo (organico, inorganico o artificiale) che viene costantemente inumidito con la soluzione nutritiva (es. la pianta in vaso di cui parlavamo sopra), nelle seconde l’apparato radicale è immerso direttamente nella soluzione nutritiva. Le coltivazioni idroponiche rientrano in questa seconda categoria”.

Le coltivazioni fuori suolo su larga scala

Le coltivazioni fuori suolo, in relazione alla tecnologia che utilizzano, si possono suddividere in High Tech, Medium Tech e Low Tech (o semplificate). Le prime vengono attuate in serre di ultima generazione, con sistemi altamente automatizzati ed efficienti per la gestione del clima nelle serre e della soluzione nutritiva, le ultime sono molto semplici, utilizzano spesso materiale di riciclo e di costo molto basso e trovano applicazione in contesti poveri, come le periferie delle città dei paesi in via di sviluppo. Su larga scala hanno senso? “Assolutamente. In Olanda la gran parte della coltivazione in serra è attuata con sistemi fuori suolo. I ben noti pomodori, peperoni e cetrioli olandesi sono coltivati con sistemi fuori suolo High Tech”. Basti pensare alle aziende olandesi Dry Hydroponics, Royal Pride o Rainbow International.

 

I principali vantaggi

Questo tipo di coltivazione ha preso piede soprattutto lì dove non c’è terreno disponibile: “Con la coltivazione fuori suolo si può coltivare in qualsiasi luogo e condizione, all’aperto o al chiuso, in orizzontale o in verticale – come per esempio Sky Greens – sui tetti o nelle cantine, in spazi grandi o molto piccoli. E in molti casi le coltivazioni possono essere molto vicine al luogo di commercializzazione riducendo i costi economici e ambientali dovuti al trasporto”. Molti gli esempi, uno tra tutti la canadese Lufa Farm. Altri vantaggi? “C’è un migliore controllo dell’approvvigionamento idrico e nutrizionale, con riflessi positivi su quantità e qualità delle produzioni. Una riduzione del consumo idrico, soprattutto con i sistemi chiusi – che recuperano la soluzione nutritiva non utilizzata dalle piante e la riciclano – nei quali si può avere un risparmio di acqua fino all’80-90%, rispetto alla coltivazione tradizionale su suolo. C’è un uso efficiente dei concimi e una migliore gestione della nutrizione della pianta, inoltre vi è un maggior controllo delle condizioni fitosanitarie: svincolandosi dal suolo viene ridotta, se non eliminata, l’incidenza di quelle malattie che si diffondono dal suolo e dei parassiti normalmente presenti nel terreno. E viene eliminata del tutto la competizione con le erbe infestanti”. Per cui i sistemi fuori suolo possono essere usati efficientemente in ambienti e climi aridi. E consentono una riduzione degli sprechi e delle perdite di acqua e di nutrienti, il che porta conseguentemente a un minor impatto ambientale. Minor impatto, dato anche da un uso limitato di agrofarmaci e diserbanti. Tra i vantaggi, ovviamente, rientra anche la possibilità di meccanizzazione e automatizzazione della produzione, crescente passando ai sistemi High Tech.

Gli svantaggi

Come tutte le cose, c’è il rovescio della medaglia. “Negli High Tech e, anche se in misura minore, Medium Tech i costi d’impianto sono elevati e necessitano di personale tecnico specializzato, per controllare il corretto funzionamento dei sistemi. Poi bisogna smaltire, da una parte, i substrati utilizzati o esausti – e questo diventa un problema qualora non si utilizzino substrati di origine organica e/o naturale – dall’altra i materiali usati, che con questo tipo di coltivazione sono spesso difficili da riciclare, come la plastica”. Altro punto “critico” è l’esigenza di disporre di acqua di buona qualità (non contaminata e non salina). Ma come la mettiamo con l’assenza di terreno? Ragionando per assurdo: se si ipotizzasse un futuro dove si utilizza solo idroponica, il terreno non si impoverirebbe, con tutte le conseguenze del caso? “Tale scenario non sarebbe affatto apocalittico, anzi, significherebbe sfruttare tutti quei posti che oggi sono dismessi. Penso alla gran parte dei capannoni industriali, che si possono riutilizzare in modo intelligente e utile. In tal caso il terreno agricolo, che non è propriamente fertile, lo si potrebbe riportare alla naturalità attraverso rimboschimenti”.
Perché bisognerebbe puntare sulle coltivazioni fuori suolo?
“Tra l’altro con la coltivazione tradizionale, oggi, riusciamo a malapena a sfamare la popolazione mondiale. Al momento attuale ognuno di noi ha a disposizione in media circa 2 mila metri quadri di suolo agricolo (negli anni ’70 era più del doppio). Figuriamoci nel 2050, quando la popolazione raggiungerà i 9,7 miliardi”. Senza contare che la disponibilità di terreno agricolo man mano sta diminuendo perché questo viene convertito in suolo edificabile (è la vecchia storia della città che si mangia la campagna). “Nel futuro ci sarà una contrazione di terra disponibile. Bisogna dunque trovare nuovi metodi di coltivazione. I sistemi Low Tech ne sono un esempio: facili da implementare e poco costosi”. Senza guardare al futuro, questi sistemi sono tuttora importanti perché capaci di aumentare la produzione e il consumo di ortaggi freschi nei villaggi e nelle periferie povere delle città del Sud del mondo. Sono quindi fondamentali per la sicurezza alimentare di molte popolazioni povere o svantaggiate.

Con l’idroponica ha ancora senso parlare di “biologico”?

Sembra dunque che il gioco (dell’idroponica) valga la candela, dato che i vantaggi sono evidentemente più convincenti degli svantaggi. Ma non essendoci ancora un regolamento, i dubbi sono molti. Del tipo: chi ci garantisce il fatto che con la coltivazione fuori suolo vengano poi effettivamente usati meno fitofarmaci? Per adesso nessun certificato bio: “Per il Regolamento CE 889/2008 che norma la coltivazione ‘biologica’ o ‘organica’ in Europa, non vengono ammesse le coltivazioni fuori suolo, in quanto la produzione biologica vegetale si basa sul principio che le piante debbano essere essenzialmente nutrite attraverso l’ecosistema del suolo. Per questo motivo non deve essere autorizzata la coltura idroponica. Negli USA, sono ancora ammesse ma c’è un forte dibattito in merito. Comunque abbiamo visto precedentemente che, se ben gestite, le produzioni fuori suolo possono essere considerate pesticide-free”.

Cosa dice la legge

Il Regolamento CE 834/2007che detta la cornice giuridica per l’agricoltura biologica, considera il suolo un fattore essenziale: “La produzione biologica vegetale dovrebbe contribuire a mantenere e a potenziare la fertilità del suolo nonché a prevenirne l’erosione. Le piante dovrebbero essere nutrite preferibilmente attraverso l’ecosistema del suolo anziché mediante l’apporto di fertilizzanti solubili”. Ancora più esplicito il Regolamento CE 889/2008: “La produzione biologica vegetale si basa sul principio che le piante debbano essere essenzialmente nutrite attraverso l’ecosistema del suolo. Per questo motivo non deve essere autorizzata la coltura idroponica, che consiste nel far crescere i vegetali su un substrato inerte nutrendoli con l’apporto di minerali solubili ed elementi nutritivi”.
Inquina di meno rispetto ad una coltivazione tradizionale?
Altro dubbio riguarda le emissioni di CO2 e di gas serra. “Bisogna considerare l’elevato uso di energia per produrre/costruire/gestire le serre – soprattutto le High Tech, considerando i motori, le attrezzature, i materiali metallici per le strutture portanti delle serre, le coperture in plastica rigida o vetro, i sistemi di distribuzione della soluzione nutritiva, la plastica per i contenitori -Se si fa riferimento alla superficie coltivata (come per esempio le emissioni di CO2 per ettaro o per metro quadrato) è chiaro che si ha un maggior rischio ambientale nel caso delle serre idroponiche High Tech. Se si fa riferimento alla produzione ottenuta (come per esempio le emissioni diCO2 per tonnellata o kilogrammo di prodotto), invece, il discorso cambia di molto perché le quantità di prodotto ottenute fuori suolo sono molto, molto maggiori rispetto alle coltivazioni tradizionali e alle biologiche”.

La coltura idroponica condiziona il sapore di frutta e verdura?

Poi c’è il dubbio con la D maiuscola: il sapore delle verdure o dei frutti da cosa deriva, se coltivati fuori dal terreno? Domanda complessa, cerchiamo di sintetizzare: in generale il sapore delle verdure e dei frutti, come quello degli altri alimenti, dipende dal gusto (equilibrio tra dolcezza, asprezza o acidità e dal grado di astringenza) e dall’aroma (composti volatili percepiti con l’olfatto).
I composti volatili responsabili dell’aroma sono generalmente composti a basso peso molecolare (esteri, alcoli, aldeidi, chetoni). Per quanto riguarda il gusto, il discorso si fa più complesso:”La dolcezza, per esempio, è determinata dalle concentrazioni degli zuccheri predominanti (fruttosio, glucosio e saccarosio) e dal loro rapporto. L’asprezza o l’acidità sono determinate dalle concentrazioni degli acidi organici predominanti (citrico, malico e tartarico) e dal loro rapporto; alcuni aminoacidi possono anche contribuire all’acidità. Minerali come calcio, fosforo e potassio si possono combinare con gli acidi organici e influenzare la percezione dell’acidità. Le sostanze fenoliche contribuiscono anch’esse all’acidità, oltre che alla sensazione di astringenza… Ecco il sapore delle verdure o dei frutti deriva da tutti questi composti e dal rapporto che c’è tra di loro”.
E il rapporto tra di loro proviene in sostanza dalla genetica della pianta, dalle condizioni climatiche in cui si trova (temperatura, luce, umidità) e da tutta una serie di altri fattori, come l’irrigazione o la concimazione, che se vengono modulati bene possono dare origine a un prodotto di qualità elevata. “È vero che i pomodori olandesi non sanno di nulla però sono tutti belli e tutti uguali: è quello che richiede il mercato. Ecco perché gli olandesi, che sono molto attenti alla produzione di ortaggi industriale, non si curano troppo del sapore. La loro è principalmente una selezione estetica. Tra l’altro il pomodoro ai nord europei piace acidulo. Non è certo l’idroponica il problema!”. In sostanza si può dire che il risultato, in termini di sapore, non dipende dalla tecnica utilizzata.

L’idroponica in Italia

Non è dunque l’agricoltura idroponica che genera prodotti di bassa qualità o che non sanno di nulla, ma da come si fa questa coltura e dal tipo di prodotto che si vuole ottenere. C’è di più: con questa coltivazione si possono modulare, per esempio, anche gli stress della pianta: “Se aumento la salinità della soluzione nutritiva, faccio andare in stress la pianta e questo fa sì che produca una serie di sostanze antiossidanti, come vitamine o certi pigmenti, che restituiscono un prodotto di qualità. Pensate ai pomodorini di Pachino, coltivati nella punta più meridionale della Sicilia, una zona assolata e caratterizzata da terreni fortemente salini. Questi pomodori sono il frutto di piante in forte stress salino e luminoso, ecco perché sono così piccoli”. E saporiti. Ne segue che con il gusto di noi italiani, l’idroponica può davvero rappresentare una reale alternativa all’agricoltura tradizionale. Ci sono realtà italiane interessanti? “Ancora deve prendere piede ma si inizia a muovere qualcosa, in provincia di Bologna c’è per esempio Ipom, che produce dei pomodori che hanno chiamato Pellerossa”. Ma sono altre le realtà, come Fri-El Greenhouse, un’azienda agricola, sempre in provincia di Bologna, che ha realizzato una serra idroponica high tech da 1 ettaro e mezzo dove si producono pomodori Cuore di Bue. E molte anche le start-up che stanno investendo in questo settore, come la toscana Sfera-Waterfood o Phytoponics, che fa parte del progetto di accelerazione di Startupbootcamp FoodTech. Oppure quelle specializzate nella coltivazione idroponica domestica: Robonica, Jellyfish Barge (serra idroponica modulare e galleggiante) o Greendea. Segnaliamo anche Coltivazioneindoor.it, che offre un catalogo online molto vasto di prodotti professionali per l’orticoltura idroponica.

a cura di Annalisa Zordan

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